Oppy De Bernardo, artista apolide per vocazione, incarna una pratica che si muove oltre il limite, dissolvendo il confine tra gesto artistico e tessuto sociale.
Nato a Locarno nel 1970, formatosi tra le sedimentazioni dell’Accademia di Brera e le tessere del mosaico ravennate, Oppy costruisce un'opera che è al contempo campo d’azione e territorio di frizione. La sua ricerca non è mai oggetto, ma progetto: si articola come spazio critico che si confronta con l’ideologia del quotidiano, con la memoria collettiva, con l’urbano come archivio instabile. Ogni sua installazione è un luogo di transito, una soglia che attiva il passante, trasformandolo in testimone o in complice.
La sua poetica — più che visiva — è etica, relazionale, fatta di materia povera e pensiero denso.
È un'arte che accade, non si espone: che si insinua nei vuoti del presente per interrogare la funzione dell’estetico nel politico.
Un’operazione, dunque, che si inserisce in quella genealogia radicale dell’arte come atto responsabile, come azione che accade fuori dal museo, e dentro la coscienza.
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